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lunedì 27 dicembre 2010

La recensione di Renzo Brollo su Mangialibri

Il boom economico degli anni ’60 diventa visibile e tangibile, il calco di un impronta gigantesca incuneata nella terra lombarda, nell’osservazione del Villaggio Falck, dimostrazione dell’incredibile propulsione e richiamo esercitato dalla richiesta di lavoro sul territorio di Sesto San Giovanni dalle acciaierie Falck nel momento di massimo potere produttivo. Alla stessa maniera, cinquant’anni più tardi, si fa scheletro fossile e strascico di un tempo ormai passato, che ha cambiato uomini e donne e modi di vivere, ma che nulla ha potuto nei confronti dell’architettura creata ad arte ed esigenza dell’uomo. Costruito per sopperire alla crescente esigenza abitativa dell’enorme transumanza di manodopera verso l’adiacente e omonimo stabilimento siderurgico, divenne, negli anni di piena produzione dell’acciaieria, un vero e proprio quartiere isolato dal resto del paese per mezzo dell’enorme perimetro produttivo, svuotandosi poi come un contenitore bucato con la chiusura degli stabilimenti. Quel che rimane sul campo sono costruzioni mute e degradate, un’atmosfera d’altri tempi dove la nostalgia e il ricordo si confondono e si mischiano alla rabbia delle nuove generazioni.

In questo contesto sociale, culturale e dentro quest’aria strana si muovono le giovani Veronica e Vittoria detta Tori, batterista metalfunk, Eugenio, writer benestante con molta arte in testa, e poi il vecchio Osvaldo, ex cartellonista, ex operaio, ex brava persona con una macchia di pedofilia sulle spalle. Tutti hanno a che fare con la Falck, con il passato attivo e lavorativo e col presente spento e polveroso dei suoi muri, che diventano arte muraria o manifesti generazionali tutti da interpretare. C’è chi li studia, come l’ingegner Luini, padre di Enrico, il cui scopo è capirne il senso censendoli e cercando un algoritmo che gli permetta di dare una valenza all’opera; c’è chi li insegue per arrestarli, come l’ispettore Ballan, perché, tra i tanti scavezzacollo con la bomboletta spray in mano, c’è qualcuno che si diverte ad incollare manifesti bianchi sopra le grandi pubblicità, neutralizzando il messaggio promozionale o, al contrario, creandone uno nuovo e ancora sconosciuto. Sta di fatto che la cosa non è legale. Dentro questo spaccato di vita presente, di scorci del passato su tramonti rosso fuoco provocati dalle ciminiere della Falck, la vita è un po’ strana, di certo diversa da quella dell’abitato di Sesto. Qui i muri del Villaggio sembrano parlare, si ricordano di quella bambina tutta imbrattata di sangue e di Osvaldo che se la teneva stretta. Sono i muri che stanno a guardare Vittoria che sogna l’abito bianco per il suo matrimonio con Enrico, da scambiare con la tuta verde degli spazzini e poi spiano l’ingegner Luini classificare e incasellare in graffi o graffiti le pitture murarie nate durante notti insonni...









Prima il calcestruzzo, poi i muri e poi ancora gli edifici abbandonati sono simboli e capitelli lasciati lì a memoria obbligata di un passato che, come una frusta, ha sferzato territori e uomini che lì vi abitavano. La lunga burrasca provocata dalla grande richiesta di lavoro ha modificato la morfologia di un territorio, incuneandosi nella genetica umana per non uscirne mai più. É un dato di fatto. Per la stessa ragione tutto questo si può definire anche materiale ricco di humus creativo dal quale attingere mille storie, buone da legare ad altre venute poi e che su quei muri ci sono passate strusciando e lasciando tracce di vernice spray. Così, dall’unione di un dinosauro di mattoni e malta, fatto apposta per contenere api operaie da far confluire tutte assieme dentro uno stabilimento, con l’espressione più o meno elevatamente artistica dei moderni writer, imitazioni e conseguenza dei loro progenitori americani e britannici, nasce questo libro che sembra a sua volta espressione di un’esigenza narrativa scaturita dal vivere e abitare proprio quel territorio. Come dire che vivere ai piedi dell’Everest porta necessariamente a scrivere dell’Everest. Perciò la storia inevitabilmente defluisce bene, dalle descrizioni di un Vulcano siderurgico al racconto di un popolo nuovo creato dai bisogni dell’economia di avere mani umane con cui costruire semilavorati e billette. Il viverci addosso aiuta a somatizzare ed elaborare un punto fermo come quello del Villaggio Falck, tutelato dal Piano Regolatore Generale come complesso di edifici di valore. C’è anche da dire che la storia defluisce sì, ma senza erodere molto l’attenzione del lettore. Manca del sangue, un additivo in grado di far lievitare e muovere tutto il contesto per poi dare il La al concerto che dovrebbe essere il libro. Non so perché. So che mi è mancato qualche cosa, sebbene l’intuizione del luogo e del tempo si capisce che sono quelle giuste, dal giusto potenziale, sebbene la scrittura sia elegante e misurata. I muri la sanno lunga, ne hanno viste di cose e le trattengono, questo io deduco. Gli edifici abbandonati sono lì a guardarci mentre ci passiamo davanti, le finestre rotte dicono più di una bella porta antica restaurata. Il moderno abbandonato non è solo il simbolo del degrado, ma è anche un’altra realtà ancora viva che ci corre appresso. Io credo che questo sia il senso del romanzo. Tuttavia, ho come la sensazione che questo libro sia una buona occasione sprecata.

http://www.mangialibri.com/node/7573

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